Come parlare a dei bambini dell’Olocausto? Come descrivere la vita che tanti loro coetanei hanno vissuto nella buia paura di Terezin, la città prigione, senz’altra prospettiva che quella di partire per andare a morire in una camera a gas? Il disagio dell’adulto e dell’educatore davanti a questa prova è quello che prende sempre quando ci scopriamo nella necessità di parlare ai bambini con verità del mondo, della vita e di ciò che si cela nelle profondità del cuore dell’uomo. Anche il nostro. E’ in realtà la difficoltà di parlare di un male di cui tutti nel secolo appena trascorso ci siamo scoperti capaci, se non nella concretezza dell’azione, certamente nella complicità dell’indifferenza. E non solo nella vicenda dell’Olocausto. Ma là dove la nostra cattiva coscienza ci porta a disperare, ci viene incontro la testimonianza di tanti che proprio nei campi, proprio nelle condizioni più incredibili e disumane, ci hanno mostrato che è possibile conservare e difendere l’umanità, la capacità di accogliere, di prendersi cura, di sperare. Sono gli adulti che a Terezin hanno rischiato la vita perché bambini e ragazzi potessero continuare a giocare, a imparare, ad esprimersi; sono i bambini stessi che nei loro disegni e nelle loro poesie ci parlano della gioia della vita nonostante tutto; sono le testimonianze straordinarie di donne come Liliana Segre ed Etty Hillesum che scelgono di servire la vita sempre e comunque, anche a costo di perdere la propria. Di questo, soprattutto, cerca di parlare ai bambini questo spettacolo. Per ricordare. Per sperare. Giocando sull’immedesimazione, sulle emozioni, sui simboli come quello di un fiore vivo, messo nelle loro mani, di cui resterà solo il ricordo del nome che gli hanno dato.

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